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Mille cretini, di Quim Monzó

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di Michele Bertinotti

mille_cretiniIl più grande fascino del romanzo è la sua libertà, e in ultima istanza il lusso di potersi permettere la lentezza. Il narratore può portarsi a spasso un personaggio per venti pagine o soffermarsi per trenta o quaranta righe sulla descrizione di un dettaglio. Il romanzo gode di un respiro ampio.
Il racconto naturalmente non può permettersi tutto questo. Chi scrive racconti deve dosare con sapienza tempi e ritmi della narrazione, puntare dritto al punto quando serve e, possibilmente, colpire nel segno. Chi sceglie la forma breve può concedersi la lentezza soltanto se alla fine viene premiata da una trovata efficace o se riesce a diluire in essa il senso di una storia. Si può dire che il racconto abbia il fiato corto.

Alcuni brani di Quim Monzó, scrittore catalano apprezzatissimo in patria, rispettano davvero le caratteristiche migliori del racconto. Tanto che la raccolta Mille cretini, uscita pochi mesi fa per Marcos y Marcos, potrebbe essere brutalmente letta come un manuale di tecnica narrativa.
C’è il crescendo di Sabato, la storia di una donna che inizia a liberarsi ossessivamente di tutto ciò che riguarda il marito – vestiti, vecchie foto – finché la sua follia si estende a tutta la casa – mobili, lampadari, persino piastrelle; l’abilità nel piazzare un picco narrativo efficace, come in Oltre la ferita, dove al termine di una vacua discussione letteraria tra un uomo e una donna, lui si toglie da un impiccio (non ha mai letto Il Profumo di Süskind) con una battuta sagace; il gusto di giocare con il ribaltamento di una scena classica, ben delineata nei tempi e nelle dinamiche, come in Una notte, dove il principe che incontra la bella addormentata finisce per liberare dalla maledizione la donzella, ma finirà per assopirsi a sua volta, e questa volta per sempre.
Ciò che colpisce di più il lettore, tuttavia, non è tanto la tecnica narrativa, pur notevole in alcuni pezzi, ma lo spirito dissacrante dei racconti. Come Auslander, Monzó gioca con il paradosso, le situazioni assurde, i nonsense, spinto dall’unico proposito di mostrarci chi siamo o chi potremmo diventare. Quella che rappresenta è la vita di qualsiasi lettore borghese, ma esasperata, istupidita da uno svolgimento narrativo privo di logica.
Per questo i gesti più vicini alla quotidianità possono diventare il pretesto per smascherare il rapporto tra due persone, una discrasia sentimentale, un anello debole. L’ambito coniugale, in questo senso, è uno dei più bersagliati. In Cento di questi giorni un uomo, riordinando un armadio, trova i maglioni a V color pastello che sua moglie, accecata dal desiderio di plasmare il marito, continua a regalargli da anni nonostante a lui non siano mai piaciuti e non l’abbia mai nascosto.
E se il protagonista di Forchetta, apprestandosi a mangiare, si rendesse conto che la moglie gli ha furbescamente rifilato una posata caduta per terra, come reagirebbe? Interpreterebbe il dispettoso gesto come una delle tante, piccole vendette che una vita coniugale dignitosa – ma piatta – può innescare?
L’affezione alla borghesia e al disvelamento delle dinamiche interne ai suoi rapporti quotidiani (padre e figlio, moglie e marito) potrebbero ricordare al lettore italiano molti racconti di Buzzati. Un esempio su tutti: anche se Monzó non gioca con il fantastico ma con il gusto del paradosso e dell’assurdo portato all’estremo, probabilmente a Buzzati non sarebbe dispiaciuto il racconto Il ragazzo e la donna, dove un attacchino di un’agenzia immobiliare appiccica volantini pubblicitari per la strada e una misteriosa donna lo segue passo passo per staccarglieli subito. Chi sarà quella donna? Cosa vorrà?
La domanda angosciante non riceverà mai risposta.

(La recensione la trovate anche qui, sulla nostra libreria Anobii)


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